martedì 7 maggio 2013

Bufala

Spett.le VanCuoc,
vorrei sapere se nel novero dei caseifici da Lei presi in considerazione per l'ipotetico tour campano compare anche la Tenuta Vannulo di Capaccio Scalo (SA).

http://www.vannulo.it/home.html

Il suddetto caseificio è citato in un recente post di Bonilli e ha tutta l'aria di produrre ottime mozzarelle. Inoltre consente una visita guidata.
A meno che non sia tutta una bufala.

I miei ossequi.

Aretino in esilio


Aretino nostro carissimo,
le rispondo sul suo stesso post. Se lei avesse letto con la DOVUTA attenzione ciò che ho pubblicato l'8 febbraio u.s. (ANDIAMO A CILENTO), saprebbe che la Tenuta Vannulo è appunto fra le mete previste, pluricitata anche a voce.
La curiosità rispetto a questo caseificio, anziché altri, mi è venuta dall'articolo di Lidia Ravera che segue: 


Tutto quello che sapevo sulla mozzarella di bufala prima di incontrare Tonino Palmieri: che sono più care delle altre, che emettono acqua bianca quando le tocchi e sporcano i pomodori, che nelle pizzerie abilitate a spacciarle sulla pizza margherita puoi ordinare una Falanghina decente (non soltanto Pinot alle polverine), che le produttrici del latte di cui sono composte sono nere, rare, brade, cornute e di buon carattere. Sapevo che la mozzarella di bufala ingrassa e aumenta il tasso di colesterolo nel sangue. Me ne tenevo alla larga, in quella penitenza di sogliola e verdura tipico delle fanatiche della taglia 40/42.
Poi, su istigazione di questa rivista, mi sono recata a Paestum, schivando i templi e infilandomi, qualche chilometro più in là, nella Tenuta Vannulo, azienda biologica certificata, caseificio e yogurteria. E a quel punto il mio rapporto con; la bufala è cambiato. Credo definitivamente. j Entri fra due pareti di ulivi trattati a siepe, e lì subisci il primo scons certo: non erano, gli ulivi, alberi dal tronco contorto e come scolpito? Mai visti riuniti e compattati a siepe, a delimitare un corridoio d’ombra. E la prima novità del luogo. La seconda novità è il gentiluomo alto e quasi biondo, in camicia di lino e cappello ranchero che ti accoglie: compito, ironico, si gode la tua sorpresa. L’azienda consta di ville antiche perfettamente restaurate e antiche cascine, una ad uso abitazione, una a museo, una a laboratorio e così via. Si respira l’aria pulita e imprevista di un passato conservato con cura, ricreato se è il caso. La tecnologia c’è, ma è ben nascosta. Sul piazzale più esposto si apre «il negozio» dove fanciulle, coi capelli raccolti sotto candide cuffiette, vendono: mozzarella, bocconcini, aversana, trecce, treccine, cardinali, yogurt, scamorza, provola affumicata, riçotta, burro, gelati, budino. Tutto di bufala.
E domenica mattina. Il piazzale è gremito di automobili. C’è agitazione. Gli acquirenti trasudano ansia: quando le mozzarelle di bufala finiscono, non c’è modo di ottenerne altre.
14 quintali di latte al giorno, compongono 3 quintali e 60 di mozzarella.
Esaurite quelle, tutti a casa. La catastrofe si consuma verso mezzogiorno. Al tocco è già tutto
finito. Terza novità: il consumo a numero chiuso. È vero che induce l’umano goloso a indulgere nella competizione (io li vedo che si controllano l’un altro, biechi, gli ultimi arrivati), ma aumenta il valore del bene scambiato.
Per ottenere la Bufala Vannulo tocca levarsi al canto del gallo e quindi inoltrarsi fino alla Tenuta Vannulo. Qui nulla si spedisce e nulla si distribuisce, tutto si vende al dettaglio come un premio ai fedeli che han camminato fino alla meta. E allora la bufala diventa sacro graal, prototipo, pezzo unico, trascende il suo, pur succulento, statuto alimentare, per attingere ai cieli dello status symbol.
«Non hai mai gustato la treccia della Tenuta Vannulo? Ah beh… allora…». Segue sospensione svalutante. Sottotesto: allora non sei un buongustaio, un bon vivant, un sensuale. Allora non sai che cosa sono le gioie del palato… probabilmente pasteggi a cocacola, forse ti accoppi nella posizione del missionario, magari indossi tessuti sintetici e così via. Viviamo tsmpi poveri di gioia: sovrastimare il ciho, sia come valore simbolico che come esperienza emotiva, è pratica sempre più diffusa.
lo non sono quel che si dice un gourmet, non commento il contenuto del mio piatto come se fosse destinato a soddisfare bisogni altri dal nutrimento, eppure… Eppure un po’ di commozione, quando mordo la carne bianca della mozzarella, quando entro, per così dire, nel vivo del formaggio, la provo perfino io.
L’ho vista nascere, la mammella metafisica che sto addentando e çhe, violata dagli incisivi superiori, piange latte.
E' tutto in mostra, qui. Il laboratorio affaccia da una vetrata sul cortile, dove una trentina di pellegrini del cibo, come padri in attesa fuori dal nido del Reparto Maternità, seguono le fasi del farsi del prodotto. lo sola, privilegiata, sono dentro, le Superga che muovono caute sul pavimento bagnato, io sola, mi aggiro fra tinozze e tubi, affiancata dal gentiluomo caseario, mentre cinque artigiani lattari eseguono, in un silenzio da chiostro, le mansioni previste. .
Dunque, funziona così: il latte arriva dalle stalle dell’azienda alle 4 e mezzo del mattino. Viene cagliato con caglio naturale (stomaco di vitello!). Il processo di maturazione dura quattro ore e mezzo. Si formano dei pani triangolari di 15 chili l’uno. I pani vengono inseriti in una macchina che li trincia a listarelle. Trinciati, vengono investiti con getti di acqua bollente, cento gradi, pochi minuti e sono cotti. Cotti vengono mescolati in un tondo mastello di acciaio, quindi sono gettati con la loro acqua in un setaccio e poi tuf; fati in una vasca di acqua fredda. Lì tre uomini, due da una parte ;. e uno dall’altra, velocissimi, mettono a punto i bocconcini. Cioè: manovrano la pasta di bufala, la formano, la mozzano (da qui il nome: mozzarella, da mozzare), la chiudono. L’ovolina è fatta.
A guardarli, questi ragazzi così seri, mentre lavorano quella grande tetta candida, le maniche rimboccate, le braccia abbronzate, c’è. sentore di sesso e di culla. Di sacro e di carnale.
Sono soltanto in 23 a lavorare nell’azienda agricola Vannulo anche se l’efficienza darebbe l’idea di altri numeri. Ma il gentiluomo Palmieri è un cultore del piccolo. Fabbrica famigliare. Lavoratori ben pagati, in regola e fidelizzati. Lavoratori che vedono e mangiano ciò che producono. Scarsamente alienati. Flessibili negli orari, ma garantiti dall’orrendo precariato. Marx sarebbe soddisfatto. Qui la rivoluzione industriale è in stand-by. Qui fai ciò che mangi e sei ciò che fai. Di conseguenza fai ciò che sei. Oltre a essere ciò che mangi, come tutti noi.
La cultura del piccolo, penso mangiando una fettina trasparente di ricotta spalmata di miele, è lei, la cultura del piccolo, che mantiene il gusto, deciso, differenziato, tanto che mangiare da necessità si fa esperienza? Il «glocal» si contrappone all’insipido «global»: carciofi d’inverno, asparagi a Natale, uva sempre, pomodori dal profumo di tubero. . .
La produzione locale è sapore in cambio di danaro. Se ti muovi da Milano per acquistare la mozzarella a Paestum, la pasta a Gragnano, il limoncello a Majori… dovrai anche dormire in un albergo, bere un caffè, comprare una cartolina. Ecco che il luogo benedetto dall’artigianato alimentare produce turismo, quindi ricchezza, occupazione, orgoglio. Il pianto storico del Mezzogiorno che tante «casse» ha svuotato, non potrebbe tacere, finalmente, a colpi di latte e sole, fecondità della terra, pesce fresco, limone pizza e fichi?
Tonino Palmieri è un custode del piccolo, un teorico della resistenza al successo che allarga, che sfonda e sforma e banalizza.
Dice: «Bisogna mettere la tecnologia al servizio della natura. Usare i mezzi della modernità per tornare indietro». .
Le bufale, che vado a visitare per ultime, gliene sono grate. Sono 500 belle giumente marrone scuro, masticano lente e ti guardano. con occhi a forma di foglia. Mentre mangiano, una doccia le rinfresca, vengono munte due volte al giorno: dall’uomo (natura) e da un ciuccio elettronico (tecnologia)
L’uomo pulisce la tetta, con le sue mani sensibili, la macchina, con la sua forza non soggetta a variazioni, fa il resto. Ogni novanta bufale ci sono tre tori. I tori montano le bufale, quando natura vuole.

Ma soltanto a quello servono. Se dal ventre della bufala ingravidata nasce un maschietto, si butta o si regala. Non è pregiato il maschio, fra le creature da latte. Il fallo sta a zero, conta la mammella. Il bufalo lo sa e riga dritto. Lì vicino, fra le pareti antiche di un altro casale in pietra, fra pochi mesi, si aprirà una pelletteria, dove la pelle dei defunti verrà conciata in cose, piccoli oggetti, ispirati al vicino museo della cultura contadina, in cui si possono ammirare secchi e grattugie a manovella, falcetti e martelli, carri e padelle. Non sarà certo un «country Prada» che spaccia borse di bufala, a trecento metri dall’animale vivo. Sarà una bottega di pezzi unici. Piccola, speciale. Poco più in là, altri lavori sono in corso: una macelleria, anch’essa ben inserita fra mura antiche in ristrutturazione.
Fa una certa impressione, dopo esserti intrattenuta con le bufale, passeggiare fra i luoghi adibiti a lavorarne le spoglie. Vivono tredici, quattordici anni, come i cani.

Belle, pulite. Le loro deiezioni (un abbondante tappeto dello stesso colore del pelo) vengono pettinate via da una macchina e messe da parte per concimare i prati.
Il loro benessere è controllato da un veterinario a tempo pieno, attraverso sensori inseriti nel collare: si sa quanto latte hanno fatto, se sono in forma, se si sentono fiacche. Carino, no? Alcuni amici miei ipocondriaci ci andrebbero a nozze con una soluzione così efficace. Fine delle ansie sulla salute.
Eppure, pure loro, povere bufale ben allevate e uccise con unico colpo di pistola nel punto giusto, finiranno in qualche piatto.
Il filetto di bufala sta per essere lanciato come prelibatezza per carnivori.
Per le anime sensibili, meglio la mozzarella. Bianca, morbida, masticabile.
Indigesta e innocente.   
LIDIA RAVERA
Vancuoc



2 commenti:

vancuoc ha detto...

COMUNICAZIONE DI SERVIZIO AI BLOGGER: l'orario in cui i nostri post vengono pubblicati è quello della costa occidentale USA. Non nego che faccia fico far finta di scrivere da un loft a Tribeca, ma la cosa è dovuta banalmente al fatto che non so rettificare il fuso.

Unknown ha detto...

La Ravera. Immagino l'articolo si chiamasse "Bufali con le ali".