domenica 1 dicembre 2013

AGOTA, tu mi capisci, Agota!

Sono reduce dalla lettura di uno di quelli che definisco 'libri dietetici' perché sono, oggi che guardo il cibo come se fossi reduce da mesi di digiuno forzato e insieme ai raptus di estro creativo che ogni tanto mi sequestrano da qualsiasi altra attività, l'unica cosa che mi trattiene perfino dall'andare a fare la passeggiata in frigorifero. Una rivelazione!
Si tratta ovviamente di Agota Kristof, che tutti voi conoscerete, ma che io non avevo mai letto.E, nello specifico, della sua Trilogia della città di K. di respiro color cemento, come suggerisce immediatamente la sua copertina, che di stonato ha solo un'atmosfera forse più cittadina di quella in cui per tutto il tempo ho avuto l'impressione di stare.








La Kristof, ungherese del 1935, è costretta dagli eventi che affliggono il suo paese nel 1956 e dalla volontà del marito, ad esiliarsi in Svizzera, a Neuchatel,  e a rinunciare alla propria lingua madre per rapportarsi e scrivere in francese, cosa che la porterà infatti a definirsi 'un'analfabeta'.   Disagio e difficoltà del distacco e della incomunicabilità trapelano da ogni pagina. 

Il libro è sgradevole, scarnificato, claustrofobico, feroce, intriso di lacerazioni e insolubile, quindi non affrontatelo come un passatempo sereno, ma vi assicuro che non riuscirete a staccarvene.   E, se proprio non vi andasse di andare oltre, leggete almeno il primo libro della Trilogia (che li raccoglie tutti):  Il grande quaderno, perché dal mio punto di vista è quello più significativo quanto allo stile, che in seguito si ammansisce insieme all'evolvere della storia. Nel  quaderno  la scrittura è totalmente liberata dalla soggettività e dal sentimento, e si avvale di poche descrizioni e di un susseguirsi di dialoghi sintetici e scarni, che sembrano trasmetterci in apparenza una teoria cinematografica di immagini (il libro lo si vede, dall'inizio alla fine) e che finiscono per arrivarci alle viscere con una potenza maggiore che se la scrittura affrontasse altrimenti un delirio di emozioni o di assenza delle stesse (il libro lo si subisce, dall'inizio alla fine).
 Un libro nero, reso ancor più urtante alla nostra percezione dal fatto che i narratori siano bambini e quindi deputati, anche quando non lo vogliamo, anche quando diciamo di sapere che la ferocia è un tratto distintivo dell'infanzia, a rappresentare nel nostro immaginario l'ingenuità e il candore. No, lasciate stare, non voglio sentire dire che non amate i libri con bambini come protagonisti. Nemmeno io.
 Ma non si tratta affatto di questo, anzi non si tratterà mai di ciò che vi sembrerà di leggere.


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